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Stazione di sosta

Silvio Gulizia
Silvio Gulizia
5 minuti
Stazione di sosta

Nella prefettura di Yamaguchi, in Giappone, ai piedi della montagna che si erge sopra il fiume Nishiki, c’è una piccola stazione ferroviaria priva di accessi. A Seiryu Miharashi Eki non si entra, e non si esce. Ci si ferma, e basta. Si scende dal treno, ci si gode il paesaggio, e si risale sul convoglio successivo. L’hanno inaugurata a marzo, e mi è tornata in mente quando ho partecipato a un incontro su un romanzo di cui, onestamente, ritenevo non mi importasse nulla. E invece, durante la serata sono emersi due temi a me cari: la necessità di sognare una vita prima di viverla, e quella di fermarsi per prendersi del tempo per pensare. Si può scendere dal treno della vita per 4 mesi, riflettere sulla strada percorsa, e poi risalirci per proseguire in maniera più consapevole, come fanno i protagonisti de I solitari di Alessandro Fusacchia?

Certamente è complicato, e quanto a me, non sono nelle condizioni di prendermi un break simile, in questo momento. Magari ci si può prendere un giorno, o un pezzo di un giorno qui e uno là, per stendere il proprio piano di vita – e questo l’ho fatto – ma in confronto ai 4 mesi proposti mi par davvero poco. Come puoi prenderti non dico quattro mesi, ma una settimana, quando sei così invischiato nella quotidianità da non riuscire neppure a pensare a quello che mangerai questa sera?

La stazione di Seiry Maiharashi Eki, fotografata e resa celebre da Gota_Kaze_SH11
La stazione di Seiry Maiharashi Eki, fotografata e resa celebre da Gota_Kaze_SH11

Una parentesi sulla serendipità

Prima di condividere con te le mie riflessioni in proposito, vorrei richiamare alla memoria il concetto di serendipità. Si tratta di un neologismo coniato dallo scrittore Horace Walpole in una lettera scritta il 28 gennaio 1754 all’amico inglese Horace Mann, all’epoca di stanza a Firenze, per spiegare una scoperta inaspettata appena compiuta.

Ti devo raccontare una delle mie scoperte […] Questa scoperta invero, è piuttosto di quel tipo che io chiamo serendipità, una parola molto espressiva, che siccome non ho niente di meglio da usare, proverò a spiegarti: la comprenderai meglio nel capire da dove viene che con una definizione.

Una volta ho letto una stupida favola dal titolo “I tre prìncipi di Serendippo1”. Quando le loro altezze viaggiavano, facevano sempre delle scoperte, per accidente e per sagacia, di cose di cui non erano in cerca: per esempio, uno di loro scoprì che un mulo cieco dall’occhio destro era passato da poco per la stessa strada, dato che l’erba era stata mangiata solo sul lato sinistro, dove appariva ridotta peggio che sul destro – ora capisce la serendipità? Uno dei più ragguardevoli esempi di questa casuale sagacia (lei deve infatti notare che nessuna scoperta di cosa che si stia cercando può ricadere sotto tale descrizione) è stato quello del mio Lord Shaftesbury, il quale, capitato a pranzo dal Lord Chancellor Clarendon, si accorse del matrimonio del duca di York e di Miss Hyde dal rispetto con cui la madre di quest’ultima trattava la figlia a tavola.

Serendipità indica la fortuna di trovare qualcosa di interessante mentre si cerca altro, e mi ricorda che la chiave del discorso è il cercare, un tema che sottolineo sia nel mio libro Vivere intenzionalmente che nel nuovo testo a cui mi sto dedicando, sulla meditazione. L’essere cercatori, per estensione, significa essere aperti alle novità, predisposti a farsi sorprendere. Una spiegazione ancora migliore di serendipità la offre questa frase:

La serendipità è cercare un ago in un pagliaio e trovarci la figlia del contadino.

Julius Comroe Jr., 1976

Tu lo cercheresti un ago in un pagliaio?

Fermarsi (a rate)

Ritornando ai due temi di cui sopra, la cosa che forse più mi ha colpito è come questi siano connessi a riflessioni che porto avanti da tempo, anche se ancora non si presentano in una forma testuale condivisibile.

Il tema del sogno l’ho affrontato in particolare in Sognare per vivere, un breve libro – dal titolo orribile, condivido – nato in seguito all’interesse mostrato dai miei lettori per alcune riflessioni estemporanee pubblicate sul mio blog. Tanti oggi mi scrivono per chiedermi come fare a sognare, e in genere non faccio altro che rimandarli a questo testo, o al Manifesto dei coltivatori di sogni, che ho pubblicato come manifesto di Vivere intenzionalmente quando ancora non aveva un nome. Ho poi ripreso il tema del sogno in forma più laica con il planner per progettare Un Anno Memorabile. La cosa che maggiormente mi ha sorpreso, è quante persone l’abbiano acquistato anche dopo la fine di gennaio, quando l’attenzione verso questo genere di cose scema. Il fatto, penso, è che dobbiamo pianificare dei momenti per sognare perché altrimenti corriamo il rischio di dimenticarci persino di andare a dormire. Infatti, spesso qualcuno mi scrive sostenendo di non avere più sogni, a allora gli rispondo “dormi di più”. Perché per sognare devi dormire, no? Ed è qui che entra in gioco la serendipità: se non sei in cerca di qualcosa, non troverai mai nulla.

C’è poi quel problemuccio che non ti ricordi i sogni. E vabbè, uno può anche semplicemente domandarsi Cosa ho sognato? quando si sveglia, oppure Cosa vorrei sognare? prima di andare a letto, e penso che già questo aiuterebbe non poco.

Come per sognare devi necessariamente addormentarti, per pensare devi prenderti del tempo per farlo. Purtroppo, molti di noi non hanno il tempo necessario per farlo. Per fortuna, questo tempo si può sempre prenderlo a rate, incastrandolo nella routine di quello che facciamo, per esempio nel rituale del mattino. Io lo faccio anche tramite la pianificazione quotidiana che conduco ogni giorno con il mio Bullet Journal e il sistema dei MIT.

Da dove partire

La cosa più importante è il punto di partenza, e su questo forse sai già come la penso: partire a piedi scalzi è il miglior modo per ritrovarsi subito dove avremmo preferito essere quando le cose si metteranno male. Per fermarsi a sognare la propria vita ritengo sia necessario partire da un punto di domanda. Sulla crucialità del porsi degli interrogativi ho scritto un articolo tempo fa, che si intitolava non a caso Fatti una domanda. Scrivevo:

[…]ogni tanto occorre porsi una domanda non tanto per darsi una risposta, ma per il semplice gusto di ragionarci un po’ su, su quello che facciamo e viviamo, su quello che ci capita, e su dove ci stia portando. Così da trovare un po’ di tempo per pensare. Perché quando ti fai tu una domanda, poi ti ritrovi davanti a una porta chiusa con una maledetta voglia di aprirla per vedere cosa ci sia dietro.

In settimana, prendendomi del tempo per fare delle proposte di articoli per un magazine online, ho rivisto alcuni appunti che avevo preso su diversi argomenti. Scrivendo poi alla persona a cui erano destinate le proposte, mi sono reso conto di aver selezionato solo quei temi che implicavano delle domanda per rispondere alle quali avrei dovuto compiere delle ricerche, o spingere oltre le mie riflessioni. Ho realizzato che un punto di domanda è l’unico tipo di punto che ti permette di rimanere un cercatore.

Come fermarsi (a rate)

Mi sono dunque chiesto quale fosse il modo più semplice per mettere in pratica tutto ciò, e mi sono risposto che è tenere un diario. Magari sfruttando la tecnica di almeno un minuto di cui ho scritto qualche tempo fa, e che prevede di dedicare almeno un minuto al giorno a fare una cosa a cui teniamo.

Potremmo un giorno sì e uno no spendere un minuto a buttare giù domande a cui vorremmo dare una risposta, e il giorno successivo un minuto a scrivere la risposta nel nostro diario. Che poi magari ti ci viene fuori qualcosa di interessante da condividere sul tuo blog o sui social, o anche solo da rileggerti tu.

Questa newsletter nasce spesso così.

  1. Serendip è il nome con cui veniva indicato lo Sri Lanka in antico persiano.
Riflessioni

Silvio Gulizia Twitter

Apprendista Jedi. Life hacker. Scrittore.