La strada giusta
Qual è la tua strada? A giudicare dai messaggi che ricevo, trovare la propria strada — scoprire la propria vocazione — sembra essere il cruccio principale dei miei lettori. Onestamente, non mi sono mai posto seriamente la questione fino a poco tempo fa, quando ho capito che in realtà non è poi così complicata. Non è importante scoprire la propria vocazione per camminare sulla strada giusta per realizzarla. Ascoltare la vita, e osservare le orme che lasciamo, è sufficiente per arrivare dove siamo chiamati ad arrivare. Vocazione infatti significa proprio richiamo.
È una persona arrivata, si dice di quelli che hanno una posizione di un certo tipo. C’è infatti questa idea di dover arrivare da qualche parte per realizzare se stessi. Un idea che non mi piace per nulla. Nella vita però non è infatti arrivare che fa la differenza.
La buona paura
Di recente mi è arrivato questo messaggio (il neretto è mio), molto simile ad altri che ho ricevuto in passato e che tutto sommato avrei potuto scrivere io stesso qualche tempo fa:
Sto attraversando un periodo difficile. Non ho alcun problema di salute, non ho problemi familiari gravi, ho sempre vissuto tranquillamente e senza mai sforzarmi molto per far andare le cose nel verso giusto. Mi ritengo una persona molto fortunata. Chi mi vuole bene è sempre presente e mi sostiene qualsiasi scelta io prenda, comprese le più bizzarre. Io stessa mi sono abituata alla mia personalità poco equilibrata e non credo, anche se ci ho provato più volte, di riuscire a trovare una via di mezzo per tenere a bada la mia follia. Il motivo per cui questo momento è difficile è che non sono ancora riuscita a capire quale sia la mia vera vocazione e quindi qualsiasi cosa io faccia non mi fa sentire realizzata, non mi fa sentire indipendente e sopratutto serena. Adesso che sto affrontando una nuova avventura intrapresa perché la mia vita precedente mi faceva sentire in gabbia, vedo intorno a me ostacoli e tante ansie venirmi incontro.
Ti ci ritrovi un po’ anche tu? Più o meno tutti ci siamo passati, in un qualche momento. Ecco, chiamerei quei momenti le svolte della nostra vita. Sono quei momenti in cui trovi il tempo di pensare e capisci che è necessario metterci la testa.
Avevo già affrontato il tema in un articolo in cui ho raccontato come ho trovato lo scopo della mia vita, ma volevo tornarci su per mettere un po’ in fila alcune riflessioni che avevo condotto e che magari possono essere utili anche a te. E la prima è questa:
Perché la paura è sempre e solo paura di perdere qualcosa, e mai paura di riuscirci. Abbiamo tutti paura di quello che perderemmo se non ce la facessimo. E ne abbiamo paura quando la posta in palio è così grossa che abbiamo deciso di mettere in gioco quello che abbiamo di più importante.
Quando scrivo un articolo su qualcosa di particolarmente importante per un giornale di primo livello, ho sempre un po’ di paura e mi agito sempre un po’ mentre scrivo. Oramai è routine, ma la paura persiste. La chiamo buona paura perché mi scatena l’adrenalina necessaria per tirare fuori il meglio di me. Senza la buona paura non c’è adrenalina e non c’è stimolo a darci dentro con tutte le mie risorse.
Qualcosa che non va
C’è sicuramente qualcosa che non va nella tua vita, come nella mia. Se tutto andasse come vogliamo, non avranno nulla di che (pre)occuparci e tutto sommato sarebbe una noia mortale.
In The art of work Jeff Goins racconta diverse storie di persone che hanno scoperto la propria vocazione attraverso una serie di apparenti fallimenti. Ecco, quei fallimenti non sono altro che colpi di scena, in cui le cose cambiano per consentire al racconto di procedere verso il proprio naturale epilogo.
La scorsa settimana ti raccontavo della strategia che ho assunto per prendere delle scelte e facevo riferimento a un articolo che scrissi tempo fa su come realizzare un progetto sfruttando il modello narrativo di Campbell. Possiamo applicare lo stesso modello alla nostra vocazione, partendo dal momento in cui l’abbiamo trovata e viaggiando a ritroso fra le tappe cruciali — i momenti di svolta, i fallimenti — attraverso cui siamo passati per arrivarci.
Che sia realtà o finzione poco conta. In questa storia ci troviamo nel punto in cui l’eroe comprende cos’è successo e accetta la missione che gli viene proposta.. Quindi ci prepariamo ad affrontare i pericoli della strada che ci conduce faccia a faccia con il mostro finale, dalla cui sconfitta deriva l’esito positivo della nostra missione.
Ascoltare la vita
Come l’eroe, così nessuno di noi è in grado di scoprire la propria vocazione se non ascolta la propria vita. Se guardiamo al nostro passato e al nostro presente ed elenchiamo i momenti più belli, le attività a cui ci dedichiamo senza renderci conto del tempo che passa, le cose che ci riescono bene senza impegnarci e quelle in cui ci piace proprio consumare il nostro tempo, non saremo mai in grado di comprendere da che parte ci tira il destino.
Nel rispondere a queste domande è fondamentale elencare i nostri presunti fallimenti, cercando di capire cosa essi ci hanno insegnato e cosa ci siamo portati appresso. La mia esperienza a Metro, un free press in cui ero costretto a scrivere articoli lunghi il tempo di una fermata della metropolitana, mi ha insegnato a individuare i messaggi importati e distinguerli dal rumore di sottofondo. Questa competenza oggi mi porta a disprezzare molti articoli che cominciano con giri di parole, frasi fatte o giudizi infondati che nulla aggiungono al valore della notizia. Di conseguenza, ho maturato un impegno costante nel non sciupare il tempo del lettore.
La capacità di sintesi che ho appreso in quegli anni mi ha poi consentito di fare mio un modo di vivere che ho definito minimalismo esistenziale. E mi ha insegnato a scrivere come mi predicava il caporedattore de La Prealpina, per cui scrivevo agli inizi del duemila: «un rigo, una notizia».
Le nostre orme
Allo stesso modo, dobbiamo interrogarci su cosa ci interessi lasciarci alle spalle, qual è l’eredità che vogliamo creare e cosa vogliamo lasciare ai nostri figli, ai nostri famigliari, e più in generale a chi viene dopo di noi.
Ogni passo che compiamo, ogni segno che lasciamo su questa terra diventa parte della nostra eredità. Di quel pacchetto di cose che ci portiamo dietro per una vita e che contribuisce a formare quell’un per cento che ci rende unici e irripetibili.
Pensare oggi alle persone che non ci sono più e a cosa ci hanno lasciato ci aiuta in questo esercizio. Ne avrei tante da raccontare, ma su tutte forse ti basta sapere che quel saluto che leggi alla fine di ogni mia e-mail è un messaggio che ho imparato da Marco Zamperini, uno di quelli che maggiormente ha contribuito a diffondere i temi legati all’innovazione nel nostro paese: ogni volta che incontravo Marco mi salutava dicendo “buona vita” e sfoggiando il suo inseparabile sorriso da gentleman.
Sulla strada giusta
Se ascolti quello che la vita di dice, e guardi i segni che ci lasci dentro, sei già sulla strada giusta per arrivare dove sei chiamato ad andare. Magari non ne hai la piena coscienza, ma a un certo punto ti devi fidare e l’unica persone di cui vale la pena fidarsi è te stesso, perché se anche non te ne rendi conto sei tu quello che ti conosce meglio.
Poi su quello che ognuno di voi vuole fare nella propria vita ci possiamo stare a pensare e discutere per parecchio tempo, ma come spiegavo nell’articolo intitolato “Partire a piedi scalzi” l’importante è schiodare il sedere dalla sedia dove è incollato e muoversi nella direzione in cui siamo chiamati. Poi, strada facendo, in qualche modo aggiusteremo il tiro, impareremo a governare la barca e seguire una rotta più precisa. Imparando dai nostri errori, perché solo l’esperienza ci aiuta a progredire nella direzione giusta e se non facciamo esperienza della strada che vogliamo seguire non riusciremo mai a seguirla fino in fondo. O a capire che dobbiamo cambiare direzione.
La vita è un incontro di pugilato. Per raggiungere i tuoi obiettivi devi alzarti dallo sgabello, uscire dall’angolo, prendere e dare qualche cazzotto, finire al tappeto, rialzarti, e cominciare a picchiare dove pensi di fare più male al tuo avversario fino a che non lo stendi definitivamente. È un po’ cruenta come metafora, ma mi pare che sia davvero così.
Buona scazzottata 😉