Essere vs Fare
Stai qui. Quando faccio per alzarmi perché penso che dorma, ma è ancora sveglia, mia figlia mi chiede sempre di rimanere. Come se io, con la mia sola presenza, rendessi completamente diverso quel momento lì, che lei a viverlo da sola non ci si trova a proprio agio. Quando va a scuola o a nuoto con la madre mi chiede sempre, prima di uscire, di farmi trovare a braccia aperte dietro la porta di casa al suo ritorno. Poi fa nulla se devo tornare in studio a lavorare, o devo andare da un cliente; però quando lei arriva io devo essere lì. Non al piano di sopra, non in un’altra stanza. Perché questo provocherebbe una crisi di pianto. Io ti assicuro che non faccio nulla di speciale nei suoi confronti, e fino a qualche giorno fa non riuscivo a capire in che modo la mia presenza potesse cambiare le cose. Poi ho capito che il nostro essere è la conditio sine qua non del nostro fare.
I bambini vogliono sedersi vicino a noi, dormire al nostro fianco o starci vicino il più delle volte non per una ragione specifica, ma perché è piacevole. Perché noi gli trasmettiamo serenità. Ci deve essere una qualche legge fisica che ci trasforma in generatori di serenità quando un bimbo ci si avvicina. E infatti, te, quando uno di loro ti guarda e ti sorride, che fai, ti volti dall’altra parte? No, stai lì a farti sorridere e automaticamente gli ri-sorridi, perché sorridere è contagioso. Ti sei mai chiesto da dove venga, il loro, di sorriso? E se venisse dal semplice fatto di starti vicino?
Quando invece li vediamo soffrire, i nostri bimbi, così come tutte le altre persone nei confronti delle quali proviamo affetto, cominciano a pruderci le mani e ci interroghiamo, o li interroghiamo, su cosa potremmo fare per aiutarli, per alleviare le loro sofferenze, insomma per cambiare le cose. Stiamo lì con quel prurito nelle mani a scervellarci fino a che non ci viene in mente un’azione da compiere, e allora ci alziamo e ci diamo dentro. Oppure continuiamo ad assillare il malcapitato nella speranza che sia lui as assegnarci un compito per sentirci a posto con la nostra coscienza. Perché non ci viene mai in mente di generare serenità e compassione? Non è infatti quello di cui chi soffre ha bisogno in quel momento?
Essere prima di fare
Il monaco buddista Thich Nhat Han sostiene che il fare venga dopo l’essere. Prima dovremmo essere gioia, pace, e felicità e poi fare queste cose sulla base di ciò che siamo. E dunque innanzitutto focalizzarci sulla pratica di essere noi stessi, prima ancora di compiere quelle azioni che ci concretizzano.
Nella pratica della meditazione non facciamo nulla. O meglio, a dire il vero facciamo diverse cose, ma in un certo senso sono cose che accadono – come il respirare – e noi quello che facciamo è starcene lì a essere quelle cose. Una porta attraverso cui transita l’aria, come dice il maestro Zen Sunryu Suzuki nei discorsi poi confluiti in Mente Zen, mente di principiante. In quel momento lì non facciamo nulla, siamo e basta. Nel dire io respiro c’è un io di troppo, sostiene Suzuki. È l’io che compie l’azione di respirare che è di troppo, nella dottrina Zen, che esclude a prescindere il dualismo fra l’io e il non-io, ma questa è un’altra storia. Il respirare accadde senza bisogno che noi lo facciamo, ma per il semplice fatto che lo siamo.
Essere noi stessi
Essere noi stessi non è così semplice come appare, perché innanzitutto occorre comprendere chi siamo davvero e poi cominciare ad agire per mettere in pratica quello che siamo. Perché altrimenti i fatti dimostrerebbero che siamo qualcosa di diverso da quello che sosteniamo di essere.
Molti di noi guardano film o leggono libri o ascoltano musica per fuggire dalla necessità di rimanere soli con se stessi, perché quando rimani solo con te stesso, se quel te stesso non ti piace, non è un bello starci. Ma perché quel te stesso, che poi sei tu, non dovrebbe piacerti? Allineare le proprie intenzioni con le proprie azioni, che è il modo con cui spiego il concetto di vivere intenzionalmente, alla fine vuol dire essere nel fare.
Mia figlia vuole che sia lì non per quello che faccio, ma per quello che sono: suo padre. Ed è nel mio essere suo padre, non nel rimanere seduto accanto a lei mentre si addormenta o nell’accoglierla sulla porta di casa, che sono. Il mio essere suo padre prevede che io sia lì, non che faccia qualcosa, ma semplicemente che ci sia.