Azione e reazione
Chi siamo e quello che facciamo sono due cose strettamente correlate, eppure raramente ci soffermiamo a meditare su questo. Così spesso non facciamo quello che siamo, ovvero non concretizziamo la nostra essenza nelle azioni di tutti i giorni. Con il risultato che non siamo più quello che siamo. Indossiamo una maschera disegnata da altri e che ci nasconde. Ti basterà domandare ad amici, parenti o colleghi di definire quello che sei per verificare quanto questa definizione sia allineata con la tua percezione di te stesso. E se non lo è, allora è il caso di pensare a quali azioni siano necessarie per fare in modo che lo sia.
Questo problema è molto più evidente quando attraversiamo un periodo difficile, o di particolare stanchezza, o in cui abbiamo dormito poco. In tutti questi casi infatti siamo vittime di una diminuzione della nostra attenzione, del nostro tempo o della nostra energia, con la conseguenza di essere più inclini a reagire alle cose che capitano senza starci a pensare. Il più delle volte, rendendo pan per focaccia a chi ci troviamo di fronte. Alzando la voce con chi ci urla dietro, facendo o desiderando del male per chi ce ne procura, comprando un regalo solo a chi ce l’ha fatto per il nostro compleanno.
Il che può anche apparire normale, ma se ci pensi un attimo, è normale che tu sia una reazione a stimoli prodotti da altri? No, credo.
Partendo da questa riflessione sono giunto a due conclusioni:
- Siamo determinanti nel determinare quello che ci accade, perché con le nostre azioni e con il nostro essere inneschiamo azioni e contribuiamo a definire l’atteggiamento degli altri nei nostri confronti (o almeno proviamo a influenzarlo);
- Siamo costantemente oggetto di un tentativo di definizione da parte di agenti esterni, perché come noi agiamo sugli altri, gli altri agiscono su di noi.
Facciamo un esercizio insieme: proviamo ad astrarre l’analisi, divenendo osservatori di quanto accade.
La teoria del cerchio
Negli scorsi giorni, una persona mi ha rivolto una domanda su uno dei passaggi del mio corso, in cui suggerisco di disegnare un cerchio e mettere dentro questo cerchio noi stessi, con tutto quello che contribuisce a definirci. A quel punto, ciò che si trova fuori dal cerchio è quanto di più estraneo a noi stessi. Eppure, se prendi una per una quelle cose che hai messo lì fuori, ti rendi conto che a volte le hai spostate dentro al cerchio. Per un motivo o per l’altro.
Quando introduciamo qualcosa di altro dentro di noi possono succedere due cose:
- il corpo estraneo genera una reazione simile a quella del vaccino, per cui sviluppiamo degli anticorpi per difenderci da quella violazione del nostro domicilio;
- il corpo estraneo si radica dentro di noi e ci plasma a sua immagine e somiglianza.
La carenza di attenzione, tempo ed energia a cui la società della distrazione ci sottopone, cercando di impedirci di rallentare per trovare il tempo di pensare, ci rende più inclini a ricadere nel secondo caso. Più a lungo queso processo si ripete, prima il cerchio si dissolve. Con il risultato che non c’è più un chiaro noi. Un chiaro io.
Essere se stessi in maniera radicale
Nel 399 A.C., il filosofo greco Socrate accettò di sottoporsi a un processo per empietà a cui fu chiamato in seguito alla denuncia di alcuni concittadini di cui aveva rivelato l’incompetenza. Rifiutandosi di usare i noti trucchi da processo e di farsi scrivere l’orazione di difesa da professionisti del foro, Socrate decise di trasformare il processo stesso in una lezione di filosofia con la quale aprire gli occhi ai 500 giudici popolari chiamati a valutarne la condotta. Il filosofo ebbe più volte l’opportunità di salvarsi la vita, come racconta Platone nel resoconto del processo, ma decise di bere la cicuta impostagli con 30 voti di scarto pur di non violentare le leggi della città di Atene, non responsabili del proprio giudizio.
Quello che fa Socrate per tutto il dibattito è presentarsi ai propri concittadini per quello che è. Accettando il giudizio popolare convinto che a chi fa del bene non possa accadere nulla di male, né da vivo né da morto, e che dunque lo stesso fatto di morire avrebbe giovato a lui stesso e al proprio ideale. Lui, sapiente perché sapeva di non sapere, e per questo chiamato in giudizio da coloro di cui aveva dimostrato l’ignoranza, dopo la condanna spiega agli stessi giudici come trasformarlo in un martire non servirà ad altro che a rafforzare il suo messaggio.
La concretezza della intenzioni
Nella vita di tutti i giorni siamo portati a rispondere male a chi ci tratta male, e a sorridere a chi ci vuole bene. Dosiamo la nostra attenzione, il nostro tempo e la nostra energia in proporzione a quello che riceviamo. Così facendo però non facciamo altro che re-agire alle intenzioni degli altri, anziché concretizzare le nostre. Spostando così l’attenzione da quello che c’è dentro al nostro cerchio a quello che si trova al di fuori di esso. Quando consentiamo a pensieri, azioni o cose che non sono nostre di entrare nel nostro cerchio, di fatto appaltiamo ad altri la definizione di noi stessi.
Il semplice fatto di comportarci diversamente con persone diverse significa indossare ogni volta una maschera che nasconde il nostro vero io.
A posteriori, direi che la Sfida di Vivere Intenzionalmente inizia giustamente dalla definizione di se stessi per arrivare a trovare l’armonia fra le componenti di noi stessi. Diciamo che è stata un’intuizione, secondo la logica stessa dell’intuizione come spiegata dai Root-Bernstein in Sparks of Genius.
Come evitare di reagire
Fra i vari benefici della meditazione c’è quello di imparare a non farsi coinvolgere dai pensieri che ci frullano per la testa. Quando meditiamo, essenzialmente diciamo a ogni pensiero che ci si presenti che non abbiamo tempo per lui perché in quel momento abbiamo deciso di dedicare la nostra attenzione a quello su cui siamo concentrati. Un po’ come quando ignori le notifiche del telefono perché stai scrivendo un articolo. Esattamente come ha fatto Socrate nei confronti degli amici che gli proponevano di salvarsi la vita sottraendosi al giudizio, ricorrendo ai trucchi del foro, o dandosi alla fuga. Solo mantenendo l’attenzione sull’oggetto della nostra concentrazione — respiro, candela, o mantra che esso sia — siamo in grado di raggiungere quello stato di pace in cui nessun pensiero ci infastidisce più.
Come nella meditazione dobbiamo essere grati a questi fastidiosi pensieri perché ci allenano fino a consentirci di trovare la pace, così nella vita di tutti i giorni dovremmo accogliere con distacco gli agenti esterni al nostro io e invitarli a rimanere al di fuori del nostro cerchio.
Un po’ come a dire Scusa questo è il mio posto, tu siediti lì fuori. Qualunque cosa ci accada, dovremmo prendere un bel fiato prima di reagire, osservare quello che succede con un certo distacco — anzi con non attaccamento — e poi agire secondo i nostri valori e ideali, domandandoci come noi (re)agiremmo. A quel punto, ci ritroveremmo davanti a un bivio: essere noi, oppure no. È un casino, ma vale la pena scegliere di essere quello che siamo. Imparare a meditare trovo che aiuti.