Ascoltarsi
Ricevo spesso richieste di consigli per situazioni complicate o problemi da cui sembra impossibile uscire, ma io non sono né uno psicologo né un mago. In genere rispondo mandando qualche link, ma ultimamente ho iniziato a suggerire sempre più spesso di ascoltarsi. Il sottotitolo del mio libro Vivere intenzionalmente è non a caso semplici pratiche per riconnettersi con i propri perché. Quando ci troviamo nei guai, quando siamo in una situazione di stallo dalla quale non riusciamo uscire, è principalmente dovuto al fatto che non siamo connessi con noi stessi. Per nostra fortuna, per riconnetterci non è necessario un intervento esterno.
Quello che fa un medico o più in generale chiunque presti assistenza è indagare l’origine del problema. Ci pone e si pone domande su domande. Alcune ovvie, altre che sembrano stupide, alcune che addirittura non riusciamo a capire come gli possano essere venute in mente. Fa il suo lavoro: quello di raccogliere più informazioni possibili per ricostruire lo scenario in cui ci troviamo. Lo strizzacervelli è un po’ diverso, perché più che fare domande ascolta. Ogni tanto ci mette qualche domanda, ma più che altro lo fa per mandare avanti la storia, recuperare qualche puntata che ha perso o si è dimenticato o per approfondire uno dei personaggi. Tutti ascoltano, a volte utilizzando strumenti che fanno parlare il nostro corpo. E pure noi quando non ci sentiamo bene ricorriamo a strumenti come il termometro per farci dire dal nostro corpo cosa succede. Il concetto è quello. Ora il punto è: perché fanno così? Lo fanno perché un problema è risolvibile solo quando chiaramente definito.
Non sempre quella che ci sembra la soluzione (divorzio, cambiare lavoro, affibbiare un castigo…) è in realtà la soluzione, ma questo non ha a che fare con la soluzione. Se hai il raffreddore e chiami lo psichiatra è evidente che non ci possa fare nulla, ma la colpa non è sua. Dunque, come individuare chiaramente il problema?
Ascoltare è difficile perché richiede innanzitutto di stare in silenzio. Se parli, qualunque cosa dici potrebbe influenzare il resto del discorso. Quando si tratta di ascoltare se stessi diventa ancora più complicato, perché chiaramente a uno dei due tocca parlare: te o quel se stessi che ti ritrovi di fronte nello specchio tutte le mattine. Il modo in cui io ho imparato ad ascoltarmi è stato attraverso la meditazione. Per questo ho voluto scriverci un libro, che ho intitolato La Pratica per indicare proprio l’aspetto pratico di questa, ehm, pratica. Meditare, ridotto all’osso, significa osservare quello che succede senza intervenire. In realtà non è neppure vero, dipende dal tipo di meditazione che pratichi, ma diciamo che sedersi in terra a gambe incrociate e concentrarsi sul proprio respiro è già di per sé illuminante, perché ti aiuta a prendere coscienza di quello che c’é dentro di te, e ce n’é molto di più di quello che tu possa credere. Quando stai lì nel silenzio e ti si manifestano immagini del passato che evidentemente non hai ancora digerito o ti sovviene di cose di cui ti eri completamente dimenticato, e che devi rimandare a dopo con il rischio di dimenticartele di nuovo, ecco lì capisci cosa significa ascoltare e perché certe domande che sembrano ovvie o senza senso sono invece cruciali per capire come ti ci sei cacciato, in quel pasticcio lì.
Un altro strumento molto efficace è scrivere. Scrivere aiuta il tuo cervello a dissociarsi. Nel momento in cui devi mettere nero su bianco la tua storia non ci sono più mezze verità, e anche il modo in cui dici le cose diventa importante. Proprio perché le parole che usiamo sono fondamentali nel raccontare la nostra storia. Tenere un diario forse il modo più semplice di scrivere delle proprie magagne, e un diario delle magagne, da compilare solo in caso di necessità, è forse anche più semplice da tenere di un vero e proprio giornale di bordo.
Ultimo strumento che mi sento di suggerire per ascoltarsi è raccontare la storia di come ci siamo finiti, in questo pasticciaccio. Seguita subito da quella su come ci siamo usciti. Per quest’ultima puoi seguire come traccia il percorso dell’eroe di cui ho raccontato in un articolo su come realizzare un progetto.
Una volta capito perché e come siamo finiti nei guai, sarà facile tirarcene fuori, anche se questo non significa che sarà semplice. La differenza fra facile e semplice è che facile indica la fattibilità, mentre semplice la semplicità. Il contrario di facile è infatti difficile, quello di semplice complicato. In realtà complicato non è esattamente il contrario di semplice, poiché semplice indica una cosa unica, che non è duplice o triplice, per intenderci. Dunque facile ci dice che è fattibile, che poi il farlo sia semplice questo no. Il modo migliore per cominciare è partire a piedi scalzi, senza stare troppo a pensarci e senza troppo pianificare (più avanti il mio Planner per un anno memorabile potrebbe esserti utile). In termini pratici, credo che questo avvenga cambiando abitudini, o meglio coltivando nuove abitudini, che. è molto più semplice di cambiare quelle acquisite. La nuova abitudine può essere una qualsiasi: passeggiata, telefonata, the al posto del caffè, tenere un diario, qualsiasi cosa che inneschi un processo di cambiamento. E che sia talmente facile da rendere più difficile astenersene che dare seguito alle nostre intenzioni. A questo gancio ci possiamo attaccare quello che serve per risolvere il nostro guaio.