Autoriflessione
Londra, anno 2000: un gruppo di ricercatori della University College London scopre che i tassisti della città hanno un’ippocampo molto più grande delle media. La spiegazione è semplice: non avendo a disposizione altro che mappe cartacee, gli autisti dei Black cabs hanno ampliato la zona del cervello collegata alla memoria per essere in grado di ricordarsi più strade possibili. Non è un caso isolato: ogni esperienza che viviamo produce infatti l’interazione fra i nostri neuroni e innesca tutta una serie di eventi dentro di noi, che alla lunga sono in grado di cambiare profondamente il nostro cervello. Possiamo controllarli attraverso l’autoriflessione.
La regola di Hebb
Nel 1949 lo scienziato Donald Hebb pubblicò il libro L’organizzazione del comportamento in cui formulò una teoria secondo cui se due neuroni interconnessi vengono chiamati in causa ripetutamente nel corso di un evento, come può essere la ricerca della strada più breve per spostarsi da Oxford Street al Tower Bridge, allora il loro legame diventa più solido e duraturo. Al punto che, per usare un linguaggio non proprio scientifico, quando uno dei due viene chiamato in causa, anche l’altro si sente in qualche modo coinvolto, anche se non c’entra nulla, e questo conduce a un’evoluzione del cervello. Lasciamo stare ora l’aspetto scientifico e concentriamoci su quello che succede nella nostra testa durante un’esperienza.
Cosa succede durante un’esperienza
Ogni esperienza è il risultato dell’azione combinata di cervello e mente. Il cervello è una parte del nostro corpo che contiene sostanze chimiche chiamate neurotrasmettitori e che in ogni momento ci fa provare emozioni, come felicità e sofferenza. La mente è un insieme di processi chiamati pensieri, sentimenti e desideri. A ogni dato evento, il cervello ci fa provare delle emozioni che la mente interpreta. Per esempio, in caso di una promozione, il cervello rilascerebbe dopamina, un neurotrasmettitore che accelera il battito cardiaco e innalza la pressione nel sangue, provocando eccitazione. La mente potrebbe reagire in due modi: considerarla una cosa positiva, portandoci a celebrare il successo raggiunto, o una cosa negativa, precipitandoci in uno stato d’ansia dovuto alle nuove responsabilità.
Mente e attenzione
Come ci insegna Hebb, oggi considerato il padre della neuropsicologia, ogni esperienza definisce l’evoluzione del nostro cervello oltre che la nostra percezione della realtà. Comprendere come funzionano i processi mentali che governano tutto ciò ci aiuta a vivere intenzionalmente la nostra vita. In termini tecnici, questa indagine sull’attività della nostra mente viene chiamata autoriflessione.
Uno dei principi di questa pratica può essere considerato Siddhārtha Gautama, membro della nobile famiglia degli Śākya. Nato nel 566 a.C. in Nepal, Siddhārtha trascorre la gioventù fra le mura della reggia famigliare, ma a un certo punto scoprì che la vita fuori da essa era piena di sofferenza. La leggenda vuole che si diede alla vita ascetica all’età di 29 anni, dopo aver incontrato un mendicante che, in mezzo a tutta quella sofferenza, procedeva calmo e sereno. Siddhārtha trascorse il resto della propria vita a meditare su felicità e sofferenza. Sei anni dopo aver iniziato il proprio percorso ascetico, raggiunse l’illuminazione. Che grosso modo equivale alla liberazione da Dukkha, tutto quanto è difficile da sopportare. Siddhārtha Gautama divvene così il primo Buddha, e diede vita al Buddismo come lo conosciamo oggi. Qui però questa cosa non ci interessa.
Un percorso alla portata di tutti.
L’autoriflessione è una cosa alla portata di tutti. Chiunque può addentrarsi nella propria mente e cercare di comprendere perché e per come risponde a un dato impulso con una data azione o pensiero. Per farlo è necessaria una certa disciplina, e la pratica della meditazione ha un ruolo primario in questo percorso. Siccome l’esito di ogni data esperienza dipende da dove indirizziamo la nostra attenzione (come nel caso della promozione), imparare a controllare la nostra attenzione è un’abilità che può cambiarci la vita, specialmente all’interno di quella che io chiamo la società della distrazione. Meditare ci aiuta a riconoscere quello che ci succede e a indirizzare la nostra attenzione senza lasciarci distrarre dal rumore di sottofondo. Non è necessaria per svolgere l’autoriflessione, ma trovo che aiuti non poco.
Per iniziare a svolgere l’autoriflessione è sufficiente chiederci il perché dei pensieri che facciamo davanti a ogni dato evento. Non è semplice, ma è interessante.